Dopo che, nei giorni scorsi, si era riacceso il dibattito sulla quarta linea aggiuntiva per il termovalorizzatore, sito nella locale zona Asi e sull’impianto in generale, con tanto di voci contrarie, pareri e posizioni intraprese, a cominciare da quelle del Vescovo Antonio Di Donna e di cui abbiamo riferito sull’ultimo numero era la stampa quotidiana, in data 5.7.2022, a riportare il seguente articolo.
“Se invece di continuare ad esportare rifiuti li utilizzassimo, per ricavarne energia, potremmo coprire l’1,4% del fabbisogno nazionale. Non sarebbe la soluzione a tutti i nostri problemi – esordisce l’articolo – ma comunque avremmo compiuto un passo in avanti verso quella, che appare una meta ancora troppo lontana: l’indipendenza energetica.
I calcoli li fa Daniela Fortini, attualmente presidente di Retiambiente spa, già presidente di Federambiente ed amministratore unico di Asìa. Per comprendere quello che sarebbe possibile fare (e non facciamo), bisogna partire da alcune premesse.
La prima: secondo la gerarchia europea dei rifiuti (recuperare-riusare-riciclare), il pacchetto economico circolare ed il Piano Nazionale Rifiuti del Mite, l’asse riciclo-recupero va anche nella direzione, di considerare “buone” tutte le pratiche che producono energia, quindi anche l’incenerimento.
La seconda: l’energia dai rifiuti può essere estratta da processi biologici (macerazione naturale di rifiuti umidi) e da combustione (bruciare scarti non riciclabili). La prima si ha con i biodigestori, la seconda con gli inceneritori. E adesso guardiamo i dati.
Nel 2020 l’Italia ha prodotto circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti organici, ne ha raccolte 7 milioni in maniera differenziata e ne ha utilizzate 5 milioni per produrre biogas. Se si considera – prosegue il quotidiano – che da una tonnellata di rifiuti organici putrescibili si ricavano circa 160 nmc (normal metri cubi) di biogas che, depurati di gas impropri, rilasciano circa 90 normal metri cubi di biometano, è facile comprendere, che con il recupero attuale si ottengono “solo” 450 milioni di biometano, che coprono circa lo 0,45% del fabbisogno italiano (58 miliardi di normal metri cubi all’anno).
Se invece tutti i rifiuti organici italiani fossero raccolti in maniera differenziata ed inviati a recupero di biometano, si avrebbe una produzione annua di circa un miliardo, cioè l’1 per cento del fabbisogno nazionale.
Il passo in avanti sarebbe sostanziale. E passiamo alla cosiddetta frazione secca. Gli scarti non riciclabili dei rifiuti urbani sono circa 12 milioni di tonnellate (2020) ed ora ne sono trattate 5 milioni di tonnellate nei termovalorizzatori e 7 milioni finiscono in discarica. I 5 milioni attualmente destinati a recupero di energia generano circa 600 milliwattora di energia elettrica e corrispondono allo 0,18% del fabbisogno italiano (319 miliardi di chilowattora all’anno).
Se tutti i rifiuti non riciclabili fossero avviati a recupero di energia, si produrrebbero 1,3 miliardi di chilowattora all’anno, che sono lo 0,40% del fabbisogno nazionale. In complesso, se utilizzassimo tutta la spazzatura prodotta in Italia, il mix tra rifiuti organici e non riciclabili comporrebbe la soddisfazione dell’1,4% italiano di energia.
E c’è anche chi propone di fare di più. “Noi continuiamo ad esportare, perché la nostra capacità di costruire impianti non va al passo con quella di raccogliere in maniera differenziata – spiega Fortini – e non solo. E paghiamo fino a 180 euro a tonnellata, per esportare una bella fetta di rifiuti all’estero, dove li bruciano per riscaldarsi.
Attualmente gli impianti sono concentrati al Nord, dove sono stati aperti molti impianti piccoli da 20, 30 mila tonnellate e la frazione umida è diventata quindi preziosa. In questo panorama la Campania è un esempio chiarissimo: raggiunge buone percentuali di raccolta differenziata, ma non ha impianti”.
Eppure solo dalla produzione di umido della Campania, si potrebbero ricavare più di 10 milioni di tonnellate di normal metri cubi. Quindi il primo passo da fare, sarebbe quello di investire nel settore impiantistico. Ma conviene spendere – aggiunge l’articolo – per ricavare energia dai rifiuti?
Secondo Fortini sì. “Un impianto di termovalorizzazione per ogni tonnellata installata costa 1100 euro, per digestore anaerobico dal quale ricavare biometano se ne spendono circa 300. A mio parere sarebbe assolutamente utile qualunque iniziativa prendessimo, per scongiurare la dipendenza dall’estero, dai pannelli fotovoltaici su una viletta che si riscalda autonomamente, alla produzione di gas dai rifiuti.
Tutto quello che serve ad affrancarsi dai combustibili fossili porta a vantaggi ambientali ed economici, di cui in ultima analisi si avvantaggiano soprattutto imprese e famiglie”.